“Le belle Cece”, di Andrea Vitali: ritorno a Bellano degli anni 30

Questo è uno di quei romanzi che si legge velocemente, un volumetto da compagnia senza tante pretese che ha consolidato l’idea che mi ero fatta su Andrea Vitali. A costo di tirarmi dietro le ire di migliaia di lettori e critici letterari, ammetto di non amare molto questo scrittore, seppur abbia voluto riservargli una seconda chance dopo il celeberrimo “Olive comprese”. Non si tratta di snobismo nei confronti della  produzione italiana da classifica e nemmeno credo si tratti solo di gusti personali: la sua prosa, infatti, il più delle volte mi stanca e non riesce a strapparmi sorrisi come invece pare succeda a tanti. Uno stile frizzante ma che alla lunga annoia, anche se si trattasse di un solo lettore, meriterebbe un approfondimento, perché quando uno scrittore tecnicamente è bravo chi ama leggere lo apprezza a prescindere. Tutto il resto è opinabile, ma non questo. Partiamo però dai punti di forza di Vitali, che accomunano tutta la sua prolifica bibliografia: l’ambientazione e la rievocazione storica dell’Italia all’ alba dell’Impero fascista. Le storie di Vitali sono tutte ambientate a Bellano, sul lago di Como, un piccolo paese che oggi conta circa 3000 abitanti che è anche il luogo natìo dello scrittore. In questo piccolo borgo si muovono i suoi protagonisti, che ad oggi ammontano ad una cifra incalcolabile, i quali con le loro vicende  quotidiane movimentano il paese dando vita a situazioni esilaranti (insomma), a sottintesi e malintesi, a fraintendimenti di ogni tipo. Perché i peccati della gente per bene di Bellano non si devono sapere: sono lo specchio dell’italia sul finire degli anni 30, quando tutto quello che importava faceva capo alla Casa del fascio,  alla Chiesa e alla Caserma dei Carabinieri. Vitali non racconta mai storie straordinarie, perché punta tutto sulle vicende personali di quel piccolo microcosmo, spesso assai più fantasiose e divertenti. Leggere un suo romanzo è come guardare alla tv un vecchio film di Peppone e Don Camillo, in cui le divertenti diatribe tra il sindaco e il parroco portavano scompiglio giù nella Bassa. Questa è una delle critiche che mi sento di muovere all’autore, perché quello di cui parla in fondo non è che una rivisitazione dell’idea che Giovannino Guareschi ebbe molto tempo prima di lui. Certo, a Brescello c’era il Partito Comunista a dirigere la vita del paesino, e la seconda guerra mondiale si era già conclusa. Però l’idea di fondo, quella di dare voce ad  una Italia dimenticata, che rischiava di perdersi nella memoria dei nostri nonni, è la medesima.Anche “Le belle Cece” è una storia semplice, che di più non si potrebbe, perchè porta alla luce peccati che esistono dalla notte dei tempi: quelli di infedeltà. Si parla di corna e questo lo si intuisce perfettamente sin dalle prime pagine, quando incontriamo Verzetta ed Orbella Cece, madre e figlia con certi pruriti che non esitano a soddisfare. La trama però non è così lineare, anzi! Si parte con la geniale trovata di Fausto Semola, segretario del fascio locale, che per festeggiare la campagna d’Etiopia decide di organizzare un concerto di campane a cui avrebbero dovuto partecipare tutte le chiese del paese e zone limitrofe. La sera in cui Mussolini proclama la nascita dell’Impero Fascista, il 9 maggio del 1936, la sinfonia di campane non è però l’unica cosa ad animare la gente di Bellano. Partiamo quindi con un improbabile concerto  per arrivare ad un furto di mutande da signora, con le iniziali ricamate sopra ad indicare senza ombra di dubbio il nome della proprietaria. In questo veloce procedere di eventi, la storia del Semola si confonde con quella di un burbero ispettore di cotonificio, elemento di spicco nel paese, e la sua consorte Verzetta. Poi si arriva alla suocera, la signora Orbella, ma passando attraverso la storia dell’effemminato Dolcineo, da sempre vittima di terribili scherzi, e del suo amico di colore direttamente importato dalla campagna d’Africa. A dirimere il traffico di vicende, il già noto maresciallo dei Carabinieri Maccadò. Un vero guazzabuglio, un inizio che prometteva bene ed una fine che sembra tirata col mattarello, allungata fino allo sfinimento con  dialoghi che non aggiugono nulla alla trama. Trenta pagine a parlare di mutande! Era molto più interessante se Vitali avesse riservato i pruriti delle signore Cece ad un altro romanzo, concentrandosi invece per questa volta solo sul Semola e sulle sue astute idee per dare lustro alla sezione locale del Partito.

Ci sono tanti modi diversi di amare un libro, non è solo questione di come è scritto: c’è chi scrive talmente bene che è in grado di ammaliare anche quando la trama è inesistente, c’è chi è in grado di imbastire storie che tengono incollati alle pagine anche se dialoghi e sintassi lasciano a desiderare, c’è chi ha una scrittura emozionale che punta sulla rievocazione di ricordi e immagini del nostro passato, e  c’è chi, come Andrea  Vitali,   cerca di raccontare con ironia e leggerezza un’ Italia che non c’è più, calcando la mano su personaggi irreali e bizzarri, dai nomi improbabili, che però spesso sono talmente distanti dalla realtà  che il sorriso rimane una smorfia strascicata. Anche questo lo posso affermare con certezza, perché io provengo dalla Bassa, e laggiù ai tempi dei miei nonni di personaggi strampalati ce n’erano a bizzeffe, con nomi anche più assurdi di quelli che si inventa Vitali. Ma le loro storie  erano proprio un’altra cosa.

Un pensiero riguardo ““Le belle Cece”, di Andrea Vitali: ritorno a Bellano degli anni 30”

Lascia un commento